Come successe che il povero Bartolo si trovò a dover affrontare torme di alieni feroci. Prima parte

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view post Posted on 5/10/2013, 16:20

Alcano

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“E così finalmente sono riuscita a sapere cosa hai fatto l’altra sera!” Lo sguardo della donna era uno di quelli che ti scorticherebbero vivo se potessero, ma tentato di mitigare con un sorriso come a dire Adesso, ti ho in pugno, posso affibbiare il colpo finale.
Biagio Bartoli, per tutti Bartolo, si guardò intorno spaesato con l’espressione di chi cerca una risposta o, nel caso peggiore una via di fuga, ma davanti all’unico ingresso c’era la moglie Ida, nella classica posizione dei gerarchi fascisti quando indottrinavano le folle: mento alto e volitivo, schiena dritta e pugni posti rigorosamente sui fianchi.
“Non mi ricordo nulla dopo la settima birra” piagnucolò come un cane bastonato, ”l’ultima visione è quella di Claudio che mi sta allungando il bicchiere della staffa, un calice di mezzo litro che ho bevuto tutto d’un fiato!”
Poi l’espressione s’incupì, preoccupata “Perché, che cosa ho fatto?” Chiese timoroso.
Era il momento che la corpulenta donna attendeva; vomitare addosso al marito la sfilza d’ignominie delle quali si era reso responsabile sotto i fumi dell’alcol; ma prima di elencare ogni singola nefandezza volle iniziare con una frase a effetto che si era studiata durante la notte.
“Tu sarai sempre fonte d’imbarazzo per me, di questo me ne rendo conto, ma stavolta hai esagerato”.
Bartolo deglutì un magone di saliva emesso dalle sue ghiandole ancora irritate dalla bevuta della sera prima, questo con un suono pieno scese lungo la laringe scuotendo la trachea in un movimento che alla donna parve timore e del quale fu orgogliosa. Lo spettacolo però, quello vero, doveva ancora cominciare e la primadonna, che era nel fulgore del suo estro creativo, avrebbe volutamente calcato ogni minimo accento gravandolo di una solennità quasi mistica, in modo che arrivasse al pover’uomo come il lacerante colpo dello scudiscio di un boia.
“Come prima cosa, e questo è disdicevole, ti hanno veduto attraversare la città barcollando come un metronomo, mentre cantavi una indistinta canzone da ubriachi, della quale non sono neppure riusciti a comprenderne il testo, facendo arrabbiare ancora di più che assisteva a quel tristo spettacolo. Non pago trascinavi con te alcune coperte che, a un certo punto hai buttato a terra, nel primo spiazzo libero e sulle quali ti sei accucciato come un cane rabbioso stremato dal suo male stesso e lo hai fatto senza salutare nessuno di quei gentili signori che ti stavano intorno per ammirare quel fior fiore di rappresentazione di umana stupidità!”
“Diamine, e non hanno sbordato alcun soldo per assistere a una simile tragedia? All’arena di Verona per guardare la Madama Butterfly si pagherebbero fior di quattrini” Chiese l’uomo con uno sguardo serafico come quello di un poppante dopo il pasto mattutino “Conosco un signore di Brescia, tale guido Ragani, un oste col quale ho prestato il servizio militare all’Accademia spaziale di Newmoon che mi ha raccontato di come una volta, non si ricorda bene per colpa di quale donna, è finito specificatamente nel suddetto tempio dell’arte lirica ad ammirare proprio quell’opera di Puccini . Non smise mai di meravigliarsi di come le persone presenti si spellavano le mani in sperticati applausi proprio nel momento più drammatico della vita della povera Cio-Cio-San, mentre questa sventurata canticchiava la sua melodiosa aria infilandosi lacerandosi il petto con un pugnale tantō, preveggente dono dell’amorevole padre”.
Un profondo sospiro di rammarico poi Bartolo si fece forza nell’animo e si rivolse alla iena in tuta da jogging “Senza contare che domani si partirà per Marte, la giornata di ieri è stata una sorta di Addio al terreggiato!” L’accostamento al celibato era voluto e pronunciato con un sibilo ofidico, come per ricordate all’amata consorte che per tre lunghi mesi non si sarebbero visti né sentiti e questo produceva in entrambi una strana euforia di indipendenza.
“Adesso vado in bagno” Disse Bartolo approfittando di un momento di silenzio della donna “devo frizionare le spalle col balsamo di tigre, contro i miei reumatismi ma soprattutto devo, con tutto il rispetto possibile, tentare di eliminare la scorsa serata dal mio stomaco!”
Per desiderare di essere precisi la situazione di Bartolo era un tantino più complessa. A causa della birra e delle altre sostanze alcoliche ingurgitate la sera precedente la vista gli stava giocando un brutto scherzo accavallando ogni singolo oggetto in modo che lui non riusciva a distinguere perfettamente una sagoma da un’altra vicina. Nella sua testa poi pareva ci fossero al lavoro tutti e i sette nani, intenti a cercare pietre preziose tra le pieghe del suo cervello, con la candida Biancaneve che li fustigava crudelmente per incitarli nella loro opera demolitoria.
“Bell’esempio di astronauta che sei” sibilò la donna vedendo la schiena e il deretano di Bartolo sparire altre lo stipite “grosso, grasso e deficiente!”
In effetti, la fisicità dell’uomo era particolare davvero, anche se l’acredine nei termini di Ida ne avevano esagerato la misura, in una parola si poteva definire indecisa. Sull’aspetto del viso nulla da eccepire, era uguale a quello di un porco, rosa, paffuto, con occhi scuri e vicini e strane orecchie staccate dalla testa solo per la punta, ma il corpo era altra cosa. Chi lo osservava per la prima volta stava ad ammirarlo per ore decidendo a quale fetta della stirpe umana esso appartenesse; da un lato pareva quasi normale se non fosse stato per i fianchi più che robusti ma poi, alcuni passi intorno a quel monolite d’uomo ed ecco che esso pareva fatto a guisa di cinghiale paffuto. Un mezzo giro ancora e tornava l’impressione di un uomo dalla forma di una pera.
“Dove sono finiti i tempi in cui chi navigava per il cosmo doveva avere la mascolina fisicità di Neil Armstrong oppure di un Buzz Aldrin!”
La voce fastidiosa della moglie lo seguì finanche davanti alla porta del bagno.
Finiti per sempre cento anni fa, da quando c’è più gente per lo spazio che su questo sovraffollato pianeta. Pensò Bartolo tra sé mentre con un veloce e opportuno gesto alzava il sedile di legno del water, proprio nel preciso momento in cui, ai conati di vomito, seguiva la parte liquida.
Espletate anche quelle fastidiose funzioni corporali si lavò per bene, tentando con il sapone convenientemente sfregato sulla sua pelle, di eliminare anche il fastidioso dolore al capo.
“Vado a dormire” disse appena uscito dal bagno “anche se sono solo le quattro del pomeriggio, sono stremato e domani mi attenderà un lungo viaggio”. Non attese nessuna risposta dalla moglie, che peraltro non arrivò visto che lei era già uscita per recarsi a casa della madre, dove poter riversare all’esterno ancora un po’ del fiele che le riempiva il fegato; ovvio che il bersaglio delle sue feroci lamentele era il comportamento sconsiderato del povero Bartolo e come lei avesse sprecato i migliori anni della sua vita ad accudire quell’animale. Molte volte, con la compiacente genitrice Ida era arrivata a sostenere che darsi della cretina era un obbligo contrattuale asserendo che, quando era giovane e a suo dire bellissima – cosa della quale l’intero mondo dubita ancora oggi – era corteggiata da fior di pretendenti. Tra tutti spiccava un mercante di bestiame di Reggio nell’Emilia di nome Fausto Catti, un patetico omuncolo basso e grasso tanto dotato in soldi quanto mite di carattere, così docile e arrendevole con lei che pareva non avere una spina dorsale su cui poggiare il busto.
“Se solo ti avessi dato retta, mamma, a quest’ora sarei una donna felice. Un bravo marito, un corposo conto in banca e una bella villa; niente figli che sono solo sacrifici ma senz’altro una domestica per aiutarmi nei lavori di casa”.
La madre insufflò tutta l’aria presente nella stanza con un profondo e lungo sospiro, attese qualche attimo per caricare la frase di una sorta di energia mistica poi, con la voce di una pantera non addomesticata ma solo parzialmente domata, parlò.
“Ah, povera figlia mia! Che brutta cosa l’amore, guarda come ti ha ridotto, maritata a un camionista spaziale in cassa integrazione, senza alcuna prospettiva di miglioramento di un reddito fisso che, a malapena, ti consente di sopravvivere. Io non voglio infierire su di te, certo che se mi avessi dato retta e badato più al conto in banca che al contenuto dei calzoni, ora saresti in una ben diversa situazione”.
Giusto perché non aveva voluto infierire.
“Madre mia, come hai ragione!” Passarono così il resto del pomeriggio, con le stesse frasi ripetute all’infinito; evidentemente le due donne non si stufavano mai di ascoltarle.
La mattina seguente Bartolo si alzò di buona ora, con il martellante rumore della sua vecchia sveglia analogica che gli ricordava di quanto fossero dolorosi i postumi di una signora sbornia quale lui aveva preso, andò nella cucina dove fece un caffè liofilizzato che bevve fumante mentre, nel tentativo di registrare per bene la vista appannata, rimirava dalla finestra della sala il panorama che questa proponeva.
Certo che i tetti di Nuova metropoli sono proprio belli, tutti di un caldo colore ocra; si stendono a perdita d’occhio sovrastando quelle eleganti mura di cemento grigio e quelle eleganti antenne di un lucido metallo grigiastro. Gli capitava spesso, dopo una serata di bagordi, di sentirsi particolarmente sarcastico: quella mattina non faceva certo eccezione.
Si vestì con una tuta arancione sulla cui schiena era impresso il logo della ditta per la quale lavorava da quasi vent’anni, Hassam Trasporti Interplanetari. Si ricordava ancora con malinconia, di quando il lavoro andava a gonfie vele, solo pochi anni prima, di come si facessero due, a volte anche tre viaggi su Marte in un singolo anno, certo, il tempo lontano da casa era tanto ma lo stipendio ripagava di ogni sacrificio. Ora invece, colpevole una crisi che nessuno sapeva chi avesse scatenato e perché, i viaggi si erano ridotti di molto, insieme ai soldi. Era stato quindi un colpo di fortuna insperato per il vecchio proprietario dell’impresa l’aver ottenuto dai grandi magazzini Astrostore quella commessa, trasportare sul pianeta rosso un consistente carico di lavatrici dell’ultimo modello; per quel viaggio il buon Hassam aveva pensato di rispolverare il cargo Odissea: questa era il fiore all’occhiello della sua possente flotta di tre vecchie e sgangherate astronavi da trasporto, la più capace di tutte.
L’importante consegna sarebbe stata portata a compimento dal suo uomo migliore, Bartolo appunto, e questa la dice lunga sulle capacità degli altri individui al suo servizio.
Con quello stato d’animo a metà tra lo stordito e l’eccitato Biagio Bartoli partì per quel lungo lavoro che lo attendeva fra le stelle più luminose del firmamento.
Il magazzino dei camion stellari di Hassam era un grande hangar scalcinato posto ai lati del luogo di decollo dell’astroporto di Nuova Metropoli, un quadrato di cemento vasto quanto l’intera città. Era incastrato tra decine di altri ricoveri per mezzi spaziali privati, vecchi edifici miseri e fatiscenti che riempivano l’intero lato ovest della pista con una miscela di incuria e di fasti del bel tempo andato che saturavano di un’aria greve l’intera sezione, in netto contrasto in quello nord invece dove eleganti e pennellati edifici statali e militari contenevano astronavi nuove di zecca che attendevano soltanto una qualche guerra che desse loro il fasto per il quale erano state costruite. A sud una lunga successione di torri di controllo in ogni foggia e misura dirigeva un continuo viavai di aerei e navi spaziali, sul loro fianco, giusto per chiudere la fila c’era uno dei quattro bar dell’aeroporto George Takei, un elegante struttura di fibrocemento di color azzurro dove, proprio in quel momento Bartolo stava consumando l’ennesimo caffè chiacchierando amabilmente con un inserviente appena conosciuto.
“Certo che il 2107 è stato un anno disastroso per l’economia globale, la crisi cominciata nel 2088 ha costretto migliaia di piccole attività a chiudere i battenti e ancora fa sentire il suo fetido alito, anche se, a onor del vero tutti gli esperti del settore sono concordi nell’asserire che le cose l’anno prossimo andranno decisamente meglio. Lo dicono ogni benedetto anno, dovranno azzeccarci prima o poi, non fosse che per la legge dei grandi numeri”. Bartolo diede l’ultima sorsata al caffè ormai intiepidito, ripose la tazza sul bancone e, guardando l’uomo dritto negli occhi, pontificò quella che riteneva la sua verità più pregnante.
“E’ ovvio ritenere che il lavoro non sia alla stregua di un riposante gioco, purtuttavia è lecito supporre che chi ne possieda uno al giorno d’oggi, debba esserne felice come un fanciullo che si trastulla col suo balocco preferito” Gli occhi dell’inserviente si rivestirono di una strana patina opaca, come quella che si forma quando si tenta impunemente di trattenere un infingardo sbadiglio che ci assale in un momento che riteniamo inopportuno ma che, nonostante tutta la nostra buona volontà decide che è giunto il tempo di uscire.
“Devo andare ora”. Si limitò a dire il pover’uomo, sgattaiolando il più velocemente possibile da quell’impiccio.
Andrò anch’io, ormai è l’ora di cominciare i controlli per la partenza, rifletté tra se Bortolo incamminandosi verso la navetta che lo avrebbe consegnato poco dopo proprio davanti ai cancelli della ditta di trasporti planetari Hassam, ad attenderlo il suo copilota.
Tra tutti i colleghi che Bartolo aveva sperato di trovare come compagno per quel lungo viaggio, Jaroslavl Fenech risultava il meno preferibile. Era un uomo magro, uno spilungone allampanato e quasi completamente calvo, originario delle terre di quello che una volta era il Protettorato Ceco e che ora invece facevano parte del neonato Nuovo Impero Ottomano. Il suo cranio secco e tirato nascondeva la pregevole smania di elencare a chiunque gli si parasse di fronte ogni singolo progresso delle scienze tecniche, con dovizia di particolari ed esaltazione d’animo. Tanto che al poveretto capitato sotto le sue grinfie, dopo un quarto d’ora d’ascolto più o meno interessato, venivano in solenne disprezzo lui e tutte le scienze umane.
La mania di Jaroslavl gli era valsa nell’ambiente il poco delicato soprannome di Stempiato Rompiballe, oppure quello di Logorrea Ambulante o ancora Cacata di Scienza, invero tutti appropriati anche se poco rispettosi, d’altro canto il suo altezzoso volersi erigere a supponente educatore delle altrui menti non meritava altro.
“Buongiorno” disse il ceco e poi, senza attendere risposta cominciò una vera elegia della moderna tecnologia elencando ogni singola scoperta del genere umano partendo dall’invenzione della ruota; questo giusto per arrivare davanti al portone. Appena varcato l’ingresso, non si sa bene come o perché a Cacata di Scienza, come adorava chiamarlo Bartolo, venne alla mente di proporre allo sventurato compagno una nuova teoria letta poche ore prima su Scienze Incredibili.
“Sono a conoscenza che alcune menti eccelse hanno elaborato una nuova teoria sullo spazio-tempo” gli occhi lucidi di Jaroslavl mentre cominciava a riferire quella perla si saggezza letta su un mensile dal titolo così evocativo, costrinse Bartolo a non mandarlo a quel paese, almeno per il momento. “Consideriamo le tre dimensioni conosciute come altrettanti assi cartesiani disposti in uno spazio infinito con un punto d’origine in comune e tracciamo con esse un ipotetico quadrilatero in costante espansione. Adesso, in questo solido spaziale inseriamo un segmento che, partendo dalla comune matrice iniziale raggiunga trasversalmente il vertice opposto, con una spirale che tocchi i lati e che si muova in avanti seguendo l’aumento del volume del parallelepipedo; questo è il tempo. Si desume da ciò che il tempo scorre unicamente perché scorre l’universo, quando questo dovesse rallentare o fermarsi così farà lui. Si avvita come una spirale ma non occupa tutto lo spazio in quanto alcune zone non ne sono sfiorate, quelle zone chiamate Aree Morte ne sono del tutto prive, non subendone gli effetti devastanti”.
“Vuoi un caffè, prima che entriamo nell’hangar a prendere la nave per partire?” Non che ne avesse davvero voglia ma avrebbe fatto di tutto per zittire il fastidiosissimo pigolio proveniente dalla bocca del collega.
Sorbito anche quello schifoso nettare che però ebbe l’indubbio vantaggio di ustionare il palato del ceco che, nella frenesia di esporre altre stravaganti teorie rivoluzionarie, lo aveva bevuto con eccessivo trasporto, Bartolo si diresse alla console esterna, un grande schermo su cui erano visualizzate le condizioni della nave, quelle del tempo, le rotte dei vari altri cargo pronti a decollare o ad atterrare e la strada nello spazio più breve per raggiungere la destinazione. I due guardarono attentamente e lessero ogni singola schermata che compariva con nuovi aggiornamenti, poi con un profondo sconforto dovuto al pensiero di dover passare i prossimi tre mesi con Jaroslavl, Bartolo pigiò il pulsante rosso che apriva il portone d’ingresso alla grande sala sbrecciata, svelando il loro mezzo di trasporto.
Ora, io sono gravido di parole e di termini in grado di definire, credo al meglio, ogni cosa che la mia mente arriva a vedere ma riuscire a spiegare il più precisamente possibile la forma del mezzo sul quale Bartolo e Jaroslavl salirono, mi risulta alquanto difficile. Sembrava un incrocio tra una scatola di cereali, un paio di bottiglie di latte e uno zigurrano, oggetto inventato soltanto nell’anno 2065 ma molto utile, tanto che l’intera umanità si chiese com’era potuta campare fino allora senza averne uno in ogni casa. L’esterno era di un gradevole color ruggine, anche se prima dell’attacco del letale ossido il tono originale era un caldo bianco avorio, come si riusciva a intuire da alcune piccole chiazze ostinatamente intenzionate a non cedere il proprio spazio ad altri. Una grossa bolla di materiale reso semitrasparente dall’usura svettava sopra l’unica parte pianeggiante della struttura e i due motori, posti sul collo delle bottiglie di latte, erano già accesi e borbottavano infastiditi dall’essere stati disturbati dopo così tanto tempo.
“Finalmente si parte, ” esordì Jaroslavl con entusiasmo “ero proprio stufo di fare pulizie e lavori d’ufficio”.
“Idem!” Fu la laconica risposta di Bartolo.
Salirono a bordo dell’Odissea, Bartolo la guardò all’interno ritenendo il nome veramente appropriato e, come il navigatore greco prima della partenza, sperò nella sorte che riservasse a lui e al suo compagno buoni auspici ma soprattutto in una laringite fulminante per il logorroico amico.
Un sibilo poi un colpo forte e il portellone si aprì sulla minuscola sala di comando, incastrata proprio nella bolla trasparente, o quasi, posta in cima al cargo; due poltrone li attendevano da tempo davanti a una console che definire antidiluviana per l’epoca risulterebbe essere un blando eufemismo. Già tre generazioni tecnologiche di cargo spaziali si erano avvicendate dopo l’uscita dalla fabbrica dell’Odissea, quasi vent’anni prima.
“Adesso tocca a noi” Disse Jaroslavl con tono enfatico, Bartolo seduto sulla poltrona in finta pelle completamente lisa del tempo impugnò con la sinistra una specie di joystick che s’innalzava sul bracciolo, con la destra invece tastò dei comandi sensoriali posti all’interno di un piccolo invaso che riproduceva perfettamente la forma della sua mano grassoccia, diede qualche colpo con il polso attivando i sensori posti contra le dita e questo provocò l’immediata chiusura di ogni boccaporto esterno della nave, pressurizzando ogni ambiente, compreso il vano di carico.
“Tieniti forte Jaroslavl, ora faremo volare questa bellezza” Le parole di Bartolo, pronunciate con l’esaltazione di chi dopo tanto tempo torna a fare la cosa per la quale si sente di essere nato, furono però troppo precipitose. Uno dei due motori cominciò a tossicchiare più del consentito perdendo potenza rispetto al gemello, così che l’ammiraglia di Hassam si trovò nella scomoda posizione di alzarsi storta, con la linea di volo completamente sballata, tanto che il pilota fu costretto a rinunciare ai pochi centimetri conquistati con quel tentativo.
“Merda Jaroslavl, intensifica maggiormente la conversione ionica del motore di destra, isolalo e spurgalo da eventuali infiltrazioni d’aria” poi lo sguardo da preoccupato si fece inquisitorio “sembra che sia la prima volta che controlli il flusso tachionico dei motori dell’Odissea”.
Con lo sguardo basso, confuso e mortificato, Jaroslavl procedette alle correzioni che ebbero come seguito il corposo aumento delle prestazioni del motore.
“Così va molto meglio, bravo, ma adesso è giunto davvero il momento di partire”.
L’Odissea si scosse con alcuni sinistri scricchiolii, quindi alzò del suolo la sua enorme sagoma e, librando come un hovercraft uscì dal portone dell’hangar venendosi a trovare all’aperto, proprio sopra la pista di decollo dell’aeroporto.
“Jaroslavl, cerca di impedire ai motori di sforzarsi troppo mentre tento di compensare il rollio di questa grassa signora” la manovra stabilizzò la nave quel tanto che bastò a farla alzare perpendicolarmente, prima in maniera lenta e calibrata ma poi via via sempre più decisa e potente.
“Bartolo, siamo appena usciti dall’esosfera, il cosmo intero si stava dispiegando davanti ai nostri occhi, pronto a svelarci alcuni dei suoi più grandi segreti”.
Quanto sei pomposo ragazzo mio, pensò Bartolo stiamo solo andando su Marte a consegnare delle lavatrici.
“Stabiliamo il corridoio preferenziale per raggiungere Marte?”.
“Stabilito!”
“Bene Jaroslavl, adesso è il momento di provare quanto forte possiamo andare, raggiungiamo gradualmente la velocità di centomila chilometri orari; adesso preparati che viene il bello!”
Bartolo sapeva bene quello di cui parlava, infatti, solo centomila chilometri dopo la loro uscita dall’atmosfera terrestre, delle lunghissime fila di boe spaziali, alcune corredate con cartelli scritti in ogni lingua terricola compresa l’Escrementico, un tentativo di lingua universale mai adottato se non da qualche piccola nazione, ordinava di seguire il percorso da loro appropriatamente segnalato.
Queste indicazioni allontanandosi dal pianeta si stringevano a collo di bottiglia, prima in maniera più gentile e blanda poi in modo più severo e deciso; avvertivano gli eventuali utenti del canale spaziale di infilarsi in quel budello cosmico pena una ritorsione armata da parte dalle torrette di guardia.
Giova a questo punto ricordare da dove lo Stato Sovrano di Selene, o S.S.S. – come veniva chiamato per velocizzare le cose – potesse trarre un simile potere daziale sui trasporti diretti al centro del sistema solare.
Tutto era iniziato un secolo prima con una singola colonia, Moon 1, una cupola in pansperx al cui interno era stata edificata una città mineraria ideata per sfruttare alcune materie prime che sulla Terra ormai scarseggiavano ma che sul satellite erano ancora in intonsi filoni o impregnazioni: ferro, oro, selenio e terre rare. Ma fu durante l’imponente conflitto Ottomano-messicano, che vide contrapposti il Blocco orientale a quello Sudamericano, che avvenne la svolta. Gli insediamenti lunari ormai erano divenuti immani metropoli, giacché una nuova tecnologia aveva permesso di estrarre ossigeno da alcuni tipi di rocce ossidanti rendendo la vita delle colonie molto più semplici; questi decisero di schierarsi con le forze asiatiche. La posizione strategica dello S.S.S. e la stazione militare appena costruita, insieme alla grande aggressività delle sue forze speciali furono in grado di far pendere l’ago della bilancia verso l’Impero asiatico a discapito della Repubblica Sudamericano e questo consentì loro di arrogarsi un tale diritto.
“Peccato che, dopo quasi mezzo secolo di sfruttamento indefesso del diritto di trasporto la sconfitta Repubblica Sudamericana rialzò la testa.” Jaroslavl aveva ripreso a raccontare con enfasi quei fatti di cui ho appena parlato, che invero Bartolo sapeva a memoria ma pur di non ascoltare le baggianate pseudoscientifiche che diversamente avrebbe vomitato l’amico, preferì sorbirsi quella piccola lezione di storia.
“La crisi cominciò a colpire il Blocco Asiatico, mentre l’allinearsi delle altre colonie planetarie ai dettami Messicani, meno repressivi e più libertari, sviluppò una fiorente economia. Ecco che, alla decina di cargo che partivano da occidente, fu data una nuova rotta che non prevedeva il doversi far dissanguare dalle sanguisughe lunari. Più volte queste tentarono di forzare il blocco ma le potenti navi da guerra messicane ebbero la meglio ogni volta”.
“Conosco questa storia” sospirò Bartolo, “quanti amici camionisti ho perduto, emigrati in quelle ricche terre”.
“Già, io pure; il peggio è che, con la crisi il numero di cargo asiatici si è praticamente azzerato e gli alti dazi della base lunare hanno definitivamente schiacciato i trasporti spaziali orientali. Inverosimilmente, ma non troppo, quello che prima costringevano a pagare a decine di navi ora è divenuto un pesante balzello per ogni singolo cargo abbia la sfortuna di capitare a tiro dei lunari.
Qui la mente analitica di Bartolo, per sottolineare la decadenza dello S.S.S. non ebbe di meglio che ricordare un aforisma letto in uno dei pochissimi libri che fosse riuscito a terminare, Il buon soldato Sc’Vèik dello scrittore ceco Hasek: “L’apparato giuridico era veramente magnifico, quale non può esistere altro che in uno stato alla vigilia della sua decadenza totale, politica, economica ed etica. Lo splendore della gloria trascorsa veniva conservato a forza di tribunali, polizia, gendarmi e di una banda di prezzolati delatori”
Come a voler rimarcare quelle meravigliose parole, tanto perspicaci quanto assolutamente reali, lo spettacolo all’esterno dell’Odissea cambiò di colpo; la lunga fila di boe segnaletiche che incanalavano tutti i veicoli provenienti dal blocco orientale del pianeta ne era la prova più concreta, alcune riuscivano ancora a emettere una flebile luce e altre il loro segnale radio ma, per la maggior parte erano ormai inutile ferraglia. Alcune decine di metri più altre nello spazio esterno, le nuovissime torrette armate a ricerca multipla facevano da contrasto con la decadenza della segnaletica spaziale. Il perché era facile da capire, forzare il blocco era ritenuta dai seleniti una colpa maggiore che sterminare un’intera famigliola, bambini compresi e tali, siffatti criminali non avevano diritto neppure a un processo.
Colpirne cento per educarne uno, era il motto di quella schiatta di luridi avvoltoi. Infatti, come un nugolo di api che sciamano seguendo la loro regina, così il bordo esterno del confine era costellato di rottami spaziali di ogni forma e dimensione, tutto ciò che restava delle navi che avevano tentato di passare senza pagare l’oneroso ma giusto pedaggio.
La stazione doganale Leonard Nimoy era un grosso edificio metallico sospeso nello spazio, a pochi chilometri dalla superficie della base lunare Moon 3, alla quale era collegata direttamente con un grosso montacarichi a fasciame dinamico di titanio, attraverso il quale arrivavano costantemente inutili dispacci e altrettanto insensati ordini ai soldati di turno che, con altrettanta solerzia, li tornavano indietro vidimati dal coadiutore in servizio in quel dato momento. Destino volle che proprio in quel turno fosse presente il famigerato Feldmaresciallo Huan Biskerlee, un omuncolo magro ed emaciato con chiari tratti orientaleggianti del volto, sapientemente miscelati a tutte le razze con le quali le sue generose ave si erano intrattenute durante le lunghe notti lunari. A ben vedere, infatti, la sua stazza non era così piccola e il taglio dei suoi occhi stemperato verso l’ovale era dovuto all’amante segreto della bisnonna, un russo kazako che, durante la guerra tra il blocco orientale e quello sudamericano, si era rifugiato nel magazzino della locanda che lei gestiva a Moon 2. Mentre il marito era a morire al fronte lei si trastullava con quel disertore che divenne il suo inaspettato giocattolo sessuale. Il colore ramato dei capelli e del pelo erano un dono della nonna, santa donna che non contrasse mai matrimonio perché voleva rimanere illibata agli occhi del dio che venerava ma che, una volta provato il piacere dell’amplesso, non poté più farne a meno. Così un giorno si scoprì incinta ma non fu per lo spirito santo quanto per un predicatore delle isole inglesi, un normanno con gli occhi chiari e la parlantina veloce. Il colore azzurro si riusciva ancora a intravedere in qualche screziatura di un’iride decisamente scura che, con un pronunciato naso adunco e il colore ambrato della cute , gli era stato lasciato in eredità dalla madre; del padre non seppe mai nulla. Questa, in breve, era la schiatta dalla quale il Feldmaresciallo Huan Biskerlee proveniva, e nessuno potrà mai negare che il perfido ufficiale non fosse degno erede di una siffatta stirpe di meretrici!
La stazione era stata progettata per contenere un flusso di mezzi da trasporto enormemente superiore a quelli presenti in quel momento sul ponte della dogana, numero che, con l’Odissea di Bartolo e Jaroslavl ammontava alla fantasmagorica cifra di due. Il pilota del cargo che li precedeva era un uomo di circa cinquant’anni con lunghi capelli unti e bianchi; camminava su e giù per la pista urlando disperato al telefonino cellulare quanto quel carico fosse importante per la neonata colonia su Venere, che era impensabile, se non criminale, bloccare il suo camion spaziale, l’interno del quale era stipato da cinquecento cilindri di ossigeno condensato necessari alla sopravvivenza di quei poveri coloni.
Il gesticolare nevrotico e il suo tono di voce alterato, che alternava a frasi minacciose una sequela d’improperi e bestemmie tale da far impallidire un seminario di frati albini dell’Ordine della Santissima Resurrezione Gioviana, erano osservato con un mefistofelico sorriso dal Feldmaresciallo Huan Biskerlee.
Questi decise di uscire dall’ufficio e di avvicinarsi all’uomo che si muoveva sincopatamente da un lato all’altro del suo mastodontico cargo con la stessa energia di una pallina in un flipper venusiano, che nello stesso spazio di uno terrestre, contiene all’incirca quaranta funghetti respingenti in più.
Si avvicinò al pover’uomo e con un fare che parve quasi umano ma che in realtà conteneva una sensazione di onnipotenza che sfiorava quella divina, gli disse: “Ho chiamato ora il Segretariato Nazionale a Moon 18, dicono che manca l’allegato 4/A del permesso di trasporto di materiali infiammabile e che il permesso del trasporto di estintori a tachioni è scaduto da due giorni”.
L’uomo sapeva perfettamente cosa ciò avrebbe comportato, una salatissima multa e molto tempo perduto, che si sarebbe dilatato a dismisura se avesse posto resistenza a quell’iniquo balzello, comunque riferì a chiunque fosse dall’altro capo del telefono quanto il Feldmaresciallo Huan Biskerlee gli aveva appena comunicato.
“Che due scatole” sbottò Jaroslavl “adesso per colpa di quell’omuncolo velenoso e delle sue stupide e inique regole perderemo un sacco di tempo. Va bene che nei giorni di viaggio calcolati da Hassam sono considerate anche queste soste forzate ma sono comunque una rottura di scatole.
Si vede che non hai una moglie da cui tornare, bello mio, se no mica avresti tanta fretta! La considerazione di Bartolo rimase circoscritta all’interno della sua testa.
“La sai che adesso dobbiamo attendere che dalla Terra arrivi il bonifico, poi, forse riusciremo a levarci da davanti quel disorganizzato camionista. Come si fa a perdere documenti così importanti e pretendere di passarla liscia?”
Una lucetta maliziosa attraversò lo sguardi di Bartolo, come quei piccoli fuochi fatui che si accendono all’improvviso nella mente recando con loro alcuni ricordi; Jaroslavl riconobbe quel lampo e il corpo venne pervaso da brividi di terrore. Va detto che il ceco era in fine e prolifico oratore ma, come spesso accade in quelle bestie, un pessimo ascoltatore.
“Una volta,” raccontò Bartolo a Jaroslavl tanto per rompere la monotonia di quell’attesa che si prospettava lunghissima “conoscevo un tizio giù a Berhr, il sobborgo a nord di Nuova Berlino, che raccontava di aver conosciuto un signore di Brema che era venuto a sapere da suo cugino la storia di un polacco che abitava a Greth di nome Herbert, un ragazzone biondo che un bel dì ricevette la cartolina per recarsi a compiere il suo servizio militare nella Reale Marina di Saturno, il che avrebbe richiesto parecchi mesi di lontananza da casa.
Questo giovane era accompagnato a una ragazza molto, diciamo così, bisognosa d’affetto; doveva nutrire la sua smania ogni giorno, non so se mi sono ben spiegato. Egli temeva che, se avesse dovuto trascorrere molto tempo lontano da lei qualcun altro avrebbe finito per imboccarla al posto suo. Questo pensiero lo tormentava e ogni giorno che passava avvicinandolo alla partenza era una vera e propria agonia per la sua anima, e non solo.
Così, parlando di questa sua disgrazia con un amico di bevute, questi gli disse che per soli trecento crediti gli avrebbe procurato un signor flegmone o un’intossicazione del sangue; con questi malanni la Reale Marina lo avrebbe senz’altro congedato senza pensarci.
Il ragazzo ribatté che, con le moderne tecniche diagnostiche, i dottori avrebbero subito scoperto il suo imbroglio e la pena per aver tentato di fregare il sistema militare sarebbe stata severa.
“Conosco un metodo antichissimo tanto semplice quanto efficace per procurarti l’accidente, e nessuno sarà in grado di scoprire l’imbroglio” Sentenziò il praticone.
“Sia,” rispose lui incautamente “non voglio lasciare Stefania al primo che capita”.
Presa quella solenne decisione si recarono nel vicolo dietro al locale, l’uomo estrasse una siringa il cui contenuto baluginava alla luce del lampione di una luce giallastra.
“Che cosa c’è dentro?” Chiese preoccupato Herbert.
“Avrei potuto usare il petrolio ma il sentore che resterebbe nella piaga tradirebbe l’imbroglio, meglio usare un vecchio preparato che ormai nessuno conosce più, una miscela di due sostanze tossiche, etere e benzina i cui vapori spariscono subito dopo l’iniezione”.
Fu così che Herbert si presentò all’ufficio per l’arruolamento, con una immensa infezione purulenta nella gamba destra, convinto di giocare l’intero apparato burocratico militare; ma fece i conti senza l’oste. Questi era un colonnello addetto all’ufficio medico, una vecchia volpe che, in più di una occasione, aveva scoperto i simulatori che intendevano schivare quel triste compito. Prese l’incarico di smascherare Herbert con grande solerzia, quasi che da questo fosse dipesa la propria carriera, utilizzò ogni singola apparecchiatura disponibile per trovare qualche traccia delle sostanze che, normalmente, si utilizzano per autoinfliggersi quella menomazione: Prexpina, Urecitrina o Tannino galaxiano, senza alcun risultato, i sensori davano sempre un esito negativo. La vecchia carogna però non si diede per vinta, provò e riprovò per ore ma nulla. In preda a una crisi epilettica dovuta al nervoso decise di fare cosa opportuna trattenendo il ragazzo nell’infermeria, giacché non si dava pace di sapere quale strana sostanza lo sventurato avesse usato per imbrogliare un grande chirurgo come lui. Sapeva in cuor suo che, davanti a lui c’era un fior fiore di simulatore e, anche se non poteva provarlo, non gliela avrebbe proprio data per vinta.
Per quasi due settimane Herbert rimase in osservazione al presidio medico, ogni benedetto giorno che dio mandava sulla terra erano prelievi del sangue e dell’orina. Ancora il vecchio colonnello non trovava nulla ma, allo scoccare del decimo giorno il giovane decise di sentirsi bene e che si sarebbe volentieri e prontamente arruolato nella Reale Marina. Questo perché il giorno prima aveva ricevuto la visita della sua fidanzata che lo informava che, mentre lui giaceva a letto, lei aveva fatto altrettanto con un cadetto dell’accademia spaziale. Per questo dico che è meglio non far infuriare l’Autorità che tanto c’è solo da perderci”.
Un copioso sbadiglio fu la degna fine di un così pedante racconto, se non che il singulto venne troncato sul nascere dal bussare di qualcuno contro il portellone d’ingresso; era il camionista sbadato che li informava solamente del fatto che, per il bonifico servivano alcune ore, dato che il suo socio non aveva alcune intenzione di cedere a quello che riteneva un ricatto bello e buono.
“Vedrai che pagherà, e con gli interessi!” Sentenziò Bartolo con l’aria di uno che sa!
“Andiamo a bere qualcosa?” Chiese Jaroslavl “Come ci ha detto quell’uomo dovremo attendere parecchio tempo, se ci bagnamo l’ugola per bene questo passerà più veloce”.
“Perché no?”
Il bar della stazione doganale era un tristo locale con poche luci soffuse, non con l’intenzione di creare un’atmosfera intima per le coppiette appartate nei separé quanto per non dover sborsare fior di quattrini in energia elettrica, merce sempre più carente e costosa. Era il ricovero temporaneo dei militari appena scesi dal turno, delle bagasce che li intrattenevano e di qualche casuale, ormai sporadico beone. Quel giorno sia i salottini privati sia i cinque tavoli in vista erano privi di clienti, Bartolo e Jaroslavl erano gli unici avventori, anzi, a ben intendere erano i soli presenti nel locale dato che non c’era neppure il barista, preso com’era da qualsiasi altra attività egli svolgesse nel retrobottega e che gli concedeva di guadagnarsi la giornata.
“C’è qualcuno? Consumatori in arrivo” Urlò Bartolo dopo aver atteso inutilmente alcuni minuti, alzando la voce quel tanto che bastò per oltrepassare qualunque cortina si potesse frapporre tra lui e la sua sacrosanta bevuta.
Ora, dovete sapere che Jaroslavl Fenech aveva solo un altro difetto oltre a quello su accennato di tediare a morte le persone con i suoi sproloqui scientifici: era un beone di una tale fatta che raramente se ne vedono in giro. Egli amava le bevande spiritose, di qualunque razza fossero e da ogni colonia provenissero, tranne che per la birra venusiana, troppo debole di tasso alcolico così che, per riuscire a prendere una sbronza come si addiceva al suo essere di lurido avvinazzato senza ritegno, ne occorrevano almeno tre casse da dieci. Il mattino dopo si risvegliava con un fortissimo dolore al capo ma soprattutto gonfio come una sanguisuga da salasso.
“Qual è il cocktail più forte che avete?” Chiese al barista con lo sguardo carico di quell’attesa tipica dei bambini davanti a un bancone di caramelle gommose quando il genitore concede loro di acquistarne alcune.
“Il più potente è il Black Venusian, un mix di vodka taron, perle di fiume iodiane e alcol puro; una bomba da settanta gradi”.
“Me ne dia tre, al mio amico chieda pure quello che desidera bere, io per il momento sono a posto”.
Parecchi viaggi del cameriere dopo Bartolo era sbronzo ma Jaroslavl versava in una condizione che ai più sarebbe parsa pietosa, se non fosse che era molto peggio. A malapena si reggeva sulla sedia e ballonzolava a destra e a sinistra che pareva precipitare a terra ogni volta ma, con un colpo di reni bene assestato, si rimetteva dritto, per poi pender come la torre di Pisa dalla parte opposto.
“Sono un porco matricolato” guaiva tentando di bere l’ennesimo bicchiere di Black Venusian, impresa difficile dato che ogni volta che alzava il bicchiere per portarlo alla bocca, Bartolo glielo ricacciava giù con forza “Per questo mio maledetto vizio mia moglie mi ha lasciato per un pastore di Nova Gorizia e i miei due figli non vogliono più sapere nulle di me”.
Come spesso capita a mascalzoni in quella situazione il cui umore cambia repentinamente come i favori dei potenti, così Jaroslavl smise di piangere, lasciò il bicchiere e mise mano al portafoglio dal quale estrasse una vecchia fotografia, ormai logora e ingiallita in cui era impressa quella che da sempre si ritiene una famigliola felice. Lui, decisamente più giovane, due bambinetti di circa dieci anni, un maschio e una femmina, e una donna, tutti abbrancati insieme come dei tralicci di vite su di un olmo. Invero della donna si vedeva solo il busto dato che qualcuno aveva cancellato con l’inchiostro di una biro il volto.
“Ti piace la mia famiglia?” Chiese l’ubriacone.
“Sei sbronzo, non credo che tu possa reggere un solo goccio d’alcol in più, inoltre ormai sono passate parecchie ore e dobbiamo andare. Credo di essere dell’idea che spartire la stretta cabina dell’Odissea con uno il cui alito puzzi più di quello di un caprone, sia una condanna più che sufficiente per oggi; torniamo sul camion”.
 
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